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Thiago Motta e Guardiola, finalmente contro

Strusciati, accomunati, mai incrociati. I destini di Thiago Motta e Pep Guardiola si intersecheranno domani sera, nella sfida dello Stadium. Juventus e Manchester City non godono di ottima salute, tutt'altro: se i bianconeri non hanno mai perso in campionato - solo una sconfitta in Champions - sono però a quattro punti di distanza dal quarto posto, la soglia minima per non dichiarare fallimento (bisogna considerare che Fiorentina e Inter, ora quarte con la Lazio a 31, dovranno recuperare la loro partita). Le certezze degli skyblues, provenienti da anni di vittorie, incominciano a scricchiolare. Come se la luce si fosse spenta con l'infortunio del centrocampista Rodri, ultimo Pallone d’Oro decisivo due anni fa contro l’Inter. Entrambi cresciuti nella storica Masia, il settore giovanile del Barça, trattati come dei predestinati. Uno da calciatore, prima che si facesse male e finisse quasi per caso nell'Inter del triplete, l'altro certamente da allenatore (in seguito a una più che soddisfacente carriera da giocatore) promosso dopo un anno di Barcellona B per vincere qualunque cosa con gli Eto'o - epurato dopo la prima annata - i Messi, gli Iniesta e i Pedro. La distanza esiste, non si può dire di no. Perché Motta è al primo appello in un grande club, dopo essere passato dal Paris Saint Germain - ma non dalla prima squadra - e avere vaticinato un 2-7-2 che era una provocazione per spiegare che il possesso palla e il dominio del gioco sono fondamentali nella ricetta dello juventino, considerando anche il portiere come un giocatore di movimento che, però, può toccare il pallone con le mani.

Il Tiki Taka

Idee estreme che si rifanno al tiki taka di blaugrana memoria, con il vaticinio di Johann Cruijff sempre ben presente: «La palla è una sola, quindi è necessario che tu ce l'abbia», una frase scolpita nella mente di Guardiola. Pep si è evoluto, così ha fatto Thiago. Dai primi anni con la rosa che probabilmente è la più forte - e completa - di sempre, ha cercato di imprimere il suo marchio sul Bayern Monaco, riuscendoci sì e no. Poi ha accettato la sfida del Manchester City, i parvenu invitati al grande ballo, i vicini chiassosi come per definizione di Sir Alex Ferguson. Diventati, con il passare dei trofei, quasi un concerto continuo.

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