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Pessotto: "Volai dalla sede della Juve, due eventi concomitanti hanno scatenato il mio male"

Gianluca Pessotto si è raccontato più volte mettendo in evidenza il giorno che tentò il suicidio lanciandosi nel vuoto dalla sede della Juventus.

L'ex giocatore della Juventus, Gianluca Pessotto, attraverso l'intervista rilasciata un po' di tempo fa sulle pagine di Repubblica, si raccontò mettendo in evidenza il momento difficile vissuto a livello personale che lo portò quasi al suicidio: "A scatenare il mio male sono stati due eventi concomitanti: l'addio al calcio e l'esplosione di Calciopoli: mi identificavo troppo nel Gianluca calciatore, tutto quello che facevo era dovuto al fatto che mi consideravo tale".

"Nel momento in cui sono venuti a mancare questi requisiti, è venuta meno anche la fiducia in me stesso. Con Calciopoli tutto ciò che avevo fatto in campo veniva azzerato, dimenticato. E' come ricevere un cazzotto e non capire da dove è arrivato. Mi sentivo l'oggetto di una perquisizione, inseguito come il peggiore dei furfanti, in ogni persona che incontravo vedevo il Diavolo o la Madonna. Una notte, tornando a casa, comprai una bottiglia d'acqua e mi sembrava che le monete di resto fossero come impolverate e cosparse di sostanze per incastrarmi. Immaginavo che ci fosse ad aspettarmi la Guardia di Finanza e che, da un'auto che mi seguiva, due persone con le fattezze vaghe dei miei suoceri, mi dicessero 'Vedrai che brutta fine'. Di quel 27 giugno 2006, il giorno della caduta, non ricordo niente, buio totale. Però ricordo gli attimi in cui pensavo di essere morto, cioè quasi morto. Al pronto soccorso, credo, oppure nei momenti di veglia durante il coma farmacologico. Il corpo se ne andava, lo sentivo andare. Sapevo che stavo per addormentarmi e che non mi sarei svegliato mai più. Quando ho riaperto gli occhi ero pieno di fili, di tubi, di ferri. Non potevo parlare perché mi avevano fatto la tracheotomia. Ho trascorso tre mesi come una pianta dentro un vaso. Tre mesi da neonato assoluto: cambiato, svestito, lavato, girato e rigirato. In quelle condizioni vinci i tabù di qualsiasi tipo".

"Però, appena sei presente a te stesso pensi che tutto quello che hai è guadagnato, ogni gesto, ogni respiro in più. E sei felice. Non sapevo cosa mi fosse successo, c'era il divieto assoluto di dirmi la verità. Io ero a letto, immobile, nei giorni della sentenza di Calciopoli: volevo sapere, eppure il televisore restava sempre spento, e zero giornali. Pensavo: o mi sono schiantato in auto, oppure ho fatto qualcosa di brutto. L'ipotesi c'era, una su due, non si scappava. Tutti mi parlavano di macchine, così credevo davvero di avere avuto un incidente. Ogni giorno c'era il colloquio con lo psichiatra. Siccome mi ritengo una persona di media intelligenza, un piccolo dubbio affiorava. Voglio dire: mica mi mandavano l'ortopedico. Volevo vedere il gran premio di Formula uno in tivù e le partite dei mondiali. Venni a sapere che l'Italia aveva vinto. La tele, sempre spenta. Finalmente ottenni di guardare i servizi sulla sentenza di Calciopoli che riguardava la Juve: tutti pregavano che non si facesse cenno alla mia vicenda, e così andò".

"Ma io sono abituato a smanettare col televideo, così andai alla pagina delle notizie sportive e lessi la mia. Si parlava delle mie condizioni fisiche, non del fatto. Il professor Donadio, il primario di rianimazione, usava una curiosa metafora sportiva per spiegare come stessi. Diceva che è come essere arrivati quasi in cima alla salita, si vede il traguardo però la strada resta insidiosa e piena di curve. Perciò mi convinsi di essermi schiantato in auto. A pensarci, è da ridere. Così, presi coraggio e chiesi: che ho fatto? Cosa mi è successo? Il professor Munno mi rispose che sccccccch, ero volato giù dalla sede della Juve. Mi disse 'L'hai fatto tu'. Avevo appena ripreso a mangiare, dopo averlo saputo restai senza mangiare per due giorni. Crisi totale. E ancora oggi non trovo la spiegazione al fatto di aver scelto di provarci in sede. Forse, in qualche modo, sapevo che per me era un posto sicuro. Anche perché non avevo e non ho ricordi del volo, anzi di nessun momento di quella giornata, però il dolore che provavo prima, nell'anima, quello sì lo ricordo e lo ricordavo alla perfezione. Un buio tremendo, senza speranza. La solitudine più profonda che si possa immaginare. Ho dovuto fare diverse operazioni, prima il bacino, poi il piede, poi la schiena e poi ancora il piede. Tornai a parlare il 16 luglio. I medici mi tolsero la cannula e mi chiesero di pronunciare il mio nome, visto che erano stufi di pronunciarlo loro. Io dissi "Gianluca". Ho ripreso a camminare il 30 settembre 2006 e c'era il pubblico delle grandi occasioni. Medici, parenti, infermieri".

"Mi hanno fatto un fragoroso applauso, anche se camminare è una parola grossa: mi sembrava che nulla del mio corpo reggesse. Il pubblico faceva il tifo, come quella sera del rigore nella finale di Champions League a Roma, ecco. Paolo Montero dopo l'incidente era rimasto a vegliarmi accanto al letto per due settimane. Quando sono stato da lui e l'ho abbracciato, è stato come se avessi abbracciato tutti coloro che mi erano stati vicino. Poi, ricordo quando mi portarono la Coppa del mondo in ospedale, scene pazzesche, c'erano i malati sulle scale con le flebo nelle braccia, tutti volevano toccare il trofeo. La sera avevo 41 di febbre. La vita, dopo, funziona con l'amore degli altri, con le tonnellate d'amore che ti rovesciano addosso. E non solo i tuoi cari, le tue bimbe, anche gli sconosciuti che t'incontrano per strada e ti dicono di essere contenti perché sei vivo. E neanche uno ti giudica. Ora sono come un astronauta tornato da un viaggio fantastico e un po' mostruoso. Gli alieni stavano per divorarmi, invece sono ancora qui. Però diverso, cambiato. Mi curo, sono in analisi, lavoro su me stesso e non me ne vergogno. E' sparita l'angoscia che mi mangiava e m'impediva persino di respirare. E' scomparsa la paura del futuro e della morte. Mi sento liberato da un peso immane: è stato un viaggio nel paese del dolore. La vita è un dono unico: per me, è stato doppio. La prima notte, i medici erano quasi sicuri di perdermi perché non coagulavo più. Il vero nemico è la solitudine, è come quando percorri i trenta metri verso il dischetto del rigore, solo che se sbagli il tiro muori".

"Ma se invece fai gol, la carica che ti resta dentro è enorme. Diventi più allegro, anche. Più spiritoso. Io ora ho imparato a scherzarci su, quando qualcuno mi dice "va bene, dai, buttiamoci", rispondo che normalmente mi butto solo io. Quando penso a come abbia fatto a salvarmi penso a una mano dall'alto che mi ha preso per i pochi capelli che avevo".

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