TORINO - Quando ripensa alla sua infanzia, i ricordi convergono tutti in una piccola struttura nascosta nella periferia di Ottawa, in Canada: la Louis Riel Public Secondary School. Un edificio basso, grigio, affacciato su una serie di campi spelacchiati dove l’inverno è abituato ad arrivare prima del calendario. È lì che è cresciuto Jonathan David, tra compiti corretti con l’evidenziatore e palloni insaccati sotto la neve. Era il migliore, ma nessuno lo diceva ad alta voce. Nemmeno lui. E così, mentre altri brillavano a intermittenza, David si accendeva ogni giorno, uguale a se stesso. Serio, determinato, costante. Mai una parola in più, mai una distrazione. Dentro quel silenzio c’era già un progetto. Ora spetterà a lui guidare l’attacco della Juventus. Ma per chi lo ha visto crescere da vicino, quel futuro era chiaro fin da subito. "Mi ricordo bene il primo giorno in cui ebbi modo di vederlo in azione - racconta Joé Fournier, coach e direttore della Louis Riel Soccer School -. Jonny aveva 14 anni e si era presentato da noi per un provino. Dalla velocità palla al piede, alla destrezza nell’uno contro uno: era semplicemente di un’altra categoria. Negli anni, poi, ho avuto modo di apprezzarne tutte le qualità…".
Jonathan David prodigio fin da bambino
C’è stato un episodio specifico in cui ha capito che potesse diventare un giocatore importante?
"Non direi, è stata una sorta di 'working progress'. Ci siamo resi conto della sua dimensione poco a poco negli anni. Noi avevamo una partnership con le academy del Barcellona, con cui organizzavamo partite e provini. Quando lo videro giocare ci chiesero subito di poterne rilevare il cartellino per farlo giocare in una delle loro strutture sparse nel Nord America. Noi ci sentivamo privilegiati ad avere in rosa un giocatore del genere, ma gli consigliammo di puntare più in alto: all’epoca era già pronto per approdare in un club professionistico europeo. Lui l’Mls non l’ha neanche mai presa in considerazione: voleva l’Europa e lavorava ogni giorno per questo".
E della sua attitudine che mi dice?
"Ha sempre dimostrato un’etica del lavoro impressionante per la sua età. Un ragazzo sorridente e positivo: nonostante agisse al fianco di compagni che non erano al suo livello, non l’ho mai visto lamentarsi con loro nemmeno una volta per un passaggio sbagliato… Pensava solo a migliorarsi e a tirare fuori il meglio dal resto della squadra".
Com’era in allenamento?
"Dava sempre il 100%. Magari in alcune sedute, un compagno poteva rendere di più di lui, ma erano casi isolati. Nel lungo periodo si vedeva quanto spiccasse rispetto agli altri. Aveva visione e furbizia. Basta guardare i gol che ha segnato in Ligue 1: non ricordo cavalcate dirompenti con tanto di dribbling… La sua forza risiede nel capire prima degli altri dove andrà il pallone. Sotto porta, poi, è spietato. Non a caso da queste parti lo chiamavano 'Ice Man'".
Che tipo di attaccante è Jonathan David
Di che attaccante parliamo? Un profilo moderno e, dunque, utile in fase di costruzione, oppure la classica punta “vecchio stampo”?
"Diciamo un mix dei due stili: è un profilo molto duttile. Sa adattarsi a qualsiasi sistema di gioco, quindi penso che possa agire anche al fianco di Kolo Muani. In Nazionale, per esempio, giocava in un modo; al Lille in un altro…. Oggi siamo abituati a giudicare i giocatori guardando gli highlights, ma così facendo ti perdi tutto il resto. Jonathan, per esempio, che segni o meno, è sempre dentro al gioco. Penso che la Juventus abbia chiuso un’operazione eccellente in rapporto qualità-prezzo".
Dentro allo spogliatoio si faceva sentire, o lasciava che fossero gli altri a parlare?
"È un tipo tranquillo e pacifico. È capitato più volte che negli anni dei suoi compagni discutessero animosamente con il mister, lui invece se ne stava in disparte e rideva. Un leader silenzioso, abituato a dare l’esempio con il lavoro quotidiano. Anche in classe era così: pensava al calcio 24 ore su 24, ma questo non aveva un impatto negativo sul suo andamento scolastico. Ha sempre avuto voti eccellenti. Ogni tanto ci capitava di rimproverarlo perché al termine dell’allenamento - quando la squadra si ritrovava per pranzare - rimaneva da solo al campo per continuare a giocare".
Le è capitato di motivarlo nei vari momenti di difficoltà?
"Mai. Jonny si gestiva da solo. Quando perdeva un contrasto o sbagliava un gol, si rialzava subito e cercava di rimediare. Ripeto non l’ho mai visto giù di corda. Anzi, era lui che provava a rincuorare i compagni quando non riuscivano a rendere al meglio. Al primo posto ha sempre messo il bene della squadra. Una volta prendemmo parte a questo torneo professionistico con altre squadre canadesi. Eravamo i favoriti, eppure uscimmo ai quarti di finale a sorpresa. A distanza di sette anni, l’ho sentito parlare ancora di quel ko. Era deluso allora, e lo è tuttora (ride ndr)".
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