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Parma-Napoli, il momento di Conte: invincibile o bersaglio delle critiche? Solo dopo può tornare alla Juve

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Redazione Calciomercato

Parma-Napoli, il momento di Conte: invincibile o bersaglio delle critiche? Solo dopo può tornare alla Juve

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Massimo Callegari

6 minuti fa

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Antonio Conte non allena squadre: costruisce progetti. Non si accontenta di gestire: modella, rifonda, incide. È un costruttore. E come ogni buon costruttore, cerca prima di tutto il terreno giusto su cui investire. Lo studia, lo esplora, poi predispone le fondamenta. Al resto - rifiniture, arredi, posate in argento da 100 euro (semicit.) spesso poi pensano altri. Lui lavora per rendere tutto solido, competitivo, vincente. Poi, quando il confronto con sé stesso lo prosciuga ancor più di quello con gli avversari, il serial winner richiude la valigetta, chiude (o sbatte) la porta e pensa già al prossimo terreno su cui edificare.

Per tutti questi motivi, Parma-Napoli è più di una tappa: è “il” momento. Perché Conte, oggi, è in quel punto esatto del suo viaggio in cui comincia a fare i conti. Non solo con la classifica, ma anche con il passato che potrebbe ritornare, prima di quanto si aspettava. L’implosione del progetto Thiago Motta, con le scosse telluriche che può generare alla Juventus, rende più realistica la possibilità di riavvicinarsi alla sua Torino e alla famiglia dopo anni di pellegrinaggio tra club e nazionale. Quello che avrebbe desiderato già l’estate scorsa. L’animale da competizione avverte inesorabile il richiamo della foresta, del club di cui si sente ancora un simbolo. Anche se, al suo giro di campo allo Stadium dopo Juve-Napoli, gli applausi non sovrastarono i fischi né l’indifferenza.

Proprio lui, bandiera bianconera e bandiera di sé stesso, a Napoli ha imposto identità, organizzazione, orgoglio. Ha parlato al cuore e alla pancia del popolo facendosi paladino di quel Sud dov’è tornato dopo anni nel nord d’Italia e d’Europa. Ma è bastato? E soprattutto: basterà a trattenerlo? Lo scontro diplomatico con il club non è mai stato tanto vicino come dopo la sua conferenza stampa pre-Monza: livelli altissimi, come un caccia che sfonda i confini dello spazio aereo rivale. Dichiarazioni che (è un paradosso) somigliavano a una resa e pure a una dichiarazione di eccessiva fiducia/presunzione ex post: nemmeno lui era/sarà capace di migliorare aspetti strutturali che già i suoi illustri predecessori avevano affrontato. Luciano Spalletti si era portato un materasso per dormire a Castelvolturno, i campi di allenamento sono una questione annosa dai tempi di Rafa Benitez, altre criticità sono state fronteggiate (e superate) da Sarri nei suoi tre anni lì. Dove però, in attesa chissà di un nuovo roboante colpo in panchina, sono ormai passati quasi tutti i migliori allenatori italiani della storia recente. E dove tutti, tranne Ancelotti, hanno reso al top delle loro potenzialità. Non può essere un caso e va reso enorme merito a De Laurentiis e alle persone che lo hanno accompagnato in questo percorso. Sempre in Europa fino all’anno scorso, molto spesso in Champions, spesso in lotta per il titolo. E mai come in questa stagione defilato per lasciare il palcoscenico al tecnico. Chapeau.

La strategia della tensione ha tenuto la squadra in linea di galleggiamento ma dopo il 2-2 contro il Genoa serve altro. A Parma non c’è in palio solo una porzione gigantesca di Scudetto: c’è anche un altro mattone per il monumento all’invincibilità di Conte in campionato, alla sua immagine di líder máximo che trascina le folle e attira i consensi. Un frammento di immagine. Di narrazione. Di potere. Vincere nonostante il rumore crescente attorno al suo futuro lo renderebbe ancora più credibile: sarebbe lui il generale capace di comandare le truppe oltre le intemperie, di dedicare tutte le energie alla squadra indipendentemente dalle decisioni che prenderà, da solo o con la società. Di attrarre tutte le attenzioni senza esserne condizionato, anzi proteggendo i suoi ragazzi dalla tensione. Ma se crollasse a un passo dal traguardo, dopo aver dedicato tutte le energie al campionato, abdicando a dicembre in Coppa Italia? Se cedesse a un avversario fortissimo ma impegnato su tre fronti fino a fine aprile, con il quarto (il Mondiale per club) in vista subito dopo la finale di Champions? Allora, in quel caso, diventerebbe lui il bersaglio per lo Scudetto smarrito a 90’/180’ dalla fine. E sarebbe inevitabile collegare il tracollo alle voci di addio che, nonostante altri due anni di lauto contratto, non si è mai curato di smentire.

Ecco perché al Tardini non si gioca solo una partita, non si gioca “solo” per il titolo. Un nuovo incrocio con il destino, per lui e per Lele Oriali. Che proprio lì, sotto la pioggia, nel 2008, con l’Inter di Mancini e Ibrahimovic, contro un Parma sull’orlo del baratro, conquistò un altro Scudetto all’ultimo respiro.

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