Veni vidi vici. Antonio Conte novello Giulio Cesare. L’uomo che vince (quasi) sempre al primo colpo. Il primo allenatore a conquistare lo scudetto con tre squadre diverse: Juventus, Inter e Napoli. Nessuno come lui. Dieci campionati vinti tra campo e panchina. La personalissima stella. È innegabilmente suo il marchio sul quarto scudetto del Napoli. Lo ha vinto nell’unico modo in cui sa vincere: alla maniera di Antonio Conte.
Il carattere di Conte e il rapporto con De Laurentiis
È arrivato col suo carico di conoscenze e personalità. Ha subito imposto sé stesso a una piazza che lo ha sì acclamato sin dal primo momento, lo ha accolto come il salvatore della patria, ma che al tempo stesso ha sempre covato una diffidenza oseremmo dire culturale dal suo Dna juventino. Lui se n’è semplicemente fregato. Sin dal ritiro di Dimaro mise le cose in chiaro, quando rimase fermo al coro “chi non salta juventino è”. Il suo passato non solo non lo ha mai rinnegato, ma ne ha rivendicato l’orgoglio di appartenenza. Farlo a Napoli non è roba da tutti. È roba da uomini, nel senso sciasciano del termine. Ha adottato lo stesso metro in tutto. Ha imposto il suo credo a un tipo non facile come Aurelio Laurentiis. Il suo ingaggio, innanzitutto. Il suo staff extralarge. E soprattutto le sue condizioni: il Napoli affidato a lui a scatola chiusa. Nessuna interferenza né fisica né verbale. Ha di fatto ridotto Aurelio De Laurentiis a ospite in casa sua. Prima di lui non c’era riuscito nessuno. E scommettiamo che non accadrà più neanche dopo di lui. Anche il mercato, quello estivo, è stato ragguardevole: 150 milioni investiti a fronte di nessuna cessione. Altra novità probabilmente irripetibile nell’era di Adl.
Conte un martello con la squadra. E il Napoli è andato oltre i limiti
E poi la specialità della casa. Lavoro. Lavoro. Lavoro. Nella sua testa siamo certi che pensasse allo scudetto sin dal primo giorno. Ha martellato col ritornello del decimo posto e dei quarantuno punti di distacco dall’Inter campione d’Italia. Così come ha più volte sottolineato che l’obiettivo era il ritorno in Europa, nemmeno dalla porta principale. Ai primi malumori della piazza, lo fece persino ribadire a De Laurentiis in un tweet. Ma sapeva dove sarebbe potuto arrivare con un gruppo certamente risicato ma unito e che soprattutto aveva nel Dna la reminiscenza della vittoria. Nello scudetto napoletano di Conte però c’è anche tanto di nuovo. Il tecnico ha smentito sul campo tanti suoi detrattori che lo hanno sempre accusato di integralismo tattico. Non se lo sarebbe potuto permettere. Ha convissuto l’intera stagione con l’emergenza. Sia per gli infortuni: basti pensare che Buongiorno ha giocato la metà delle partite. Sia per la partenza di Kvaratskhelia a gennaio. Ha più volte montato e smontato la sua creatura. Difesa a tre. Difesa a quattro. Doppio play. Quattro-tre-tre. Oppure quattro-quattro-due con Raspadori sottopunta al fianco di Lukaku. Spinazzola esterno d’attacco. Olivera difensore centrale. Il suo è stato un laboratorio creativo. Non si è mai perso d’animo. Sì, qualche frecciata alla Conte l’ha lanciata. Ma tutto sommato poca roba rispetto alle abitudini. Gli va riconosciuto che per portare il Napoli oltre i propri limiti, ha dovuto per primo lui andare oltre sé stesso. Ha permeato il gruppo della sua forza mentale. Ha trainato il Napoli verso un successo che ness uno avrebbe mai pronosticato se la stessa rosa fosse stata affidata a qualsiasi altro allenatore. È una delle vittorie più contiane della sua carriera. Che alimenta ulteriormente il mito. Che poi sia stato un miracolo o no, è del tutto irrilevante. È roba da dibattito. Quel che è indiscutibile, invece, è che solo lui poteva riuscire nell’impresa di far passare il Napoli direttamente dalla terapia intensiva al trionfo.
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