È il 5 novembre del 1991. È la Coppa Italia. La Juventus gioca a Torino, affronta l'Atalanta, ed è sotto: dopo 14 minuti, la Dea va in vantaggio con un gol di Bigliardi che ammutolisce il Delle Alpi. Tra i guizzi di Di Canio e le urla di Tacconi, capitano, i bianconeri non riescono a uscire dalla ragnatela nerazzurra. Sembrano bloccati. Serve allora un guizzo, magari da fermo. Al 44', più o meno dai 30 metri, una punizione centrale pare fatta appositamente per scodellarla. O al limite per tentare la botta. È quest'ultima, la decisione intrapresa: se ne occupa Julio Cesar da Silva, che non parte da solo, bensì sorprende tutti. Il tocco ravvicinato intrappola il pressing atalantino, poi quel destro è una preghiera, una sassata, una soluzione. L'1-1, più concretamente. E dà il via a una ripresa fortissima, con il rigore di Corini, la chiosa di Alessio, e il 3-1 definitivo. Ora: perché era proprio necessario questo preambolo? Perché è un facile tuffo nei ricordi. In molti, in fondo, associano Julio a quella punizione, se e quando se ne parla in chiave Juve. «E ancora oggi ricordo tutto - racconta -, perché quella con i bianconeri è stata una parentesi incredibile, una delle storie più belle in assoluto».
Julio Cesar, se le chiedo il primo ricordo associato alla sua vita in bianconero?
«Quando abbiamo vinto la Coppa Uefa nel 1993. Ero in difesa con Massimo Carrera, Jurgen Kohler e Marco De Marchi, all'andata. Poi Torricelli al ritorno. 6-1 in totale, Dino Baggio ne fa 3 nelle due partite. Poi c'era Roby Baggio: e che vuoi dire? Uno dei momenti più belli della mia carriera».
E Torino? Le piaceva?
«Certo. E molto. Anzi: tantissimo. Abitavo in pieno centro, in via Roma. La città era molto diversa da come posso immaginarla ora. Però sono stato davvero bene».
Poi è andato a Dortmund, dal 1994 al 1998. E ancora dopo il primo ritorno a casa, al Botafogo.
«Altro luogo del cuore. Rispetto a Torino, un posto differente, però non posso dire migliore o peggiore. Semplicemente, sono città diverse, e sono stato bene pure lì. Anche se...».
Anche se?
«Anche se al primo anno ho avuto qualche difficoltà in più rispetto all'Italia. Un po' per la lingua, un po' per la mentalità che c'era in Germania. Le persone erano più chiuse, almeno inizialmente. Nel 1998 sono tornato in Brasile e poi in Grecia, al Panathinaikos, al Werder... Ho girato tanto».
Ha giocato con i bianconeri e i gialloneri: oggi chi guarda di più?
«Devo essere onesto: guardo di più il Borussia. Questione di rapporti, più che di fede. Ho ancora un legame forte con Dortmund anche perché abbiamo una squadra di vecchie glorie. Siamo spesso insieme, in Europa e nel mondo: ci ritroviamo per fare alcune amichevoli con il vecchio gruppo dei compagni, hanno scopo benefico. Ed è comunque la squadra con cui ho vinto la Coppa dei Campioni».
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