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"Juve mia, arrivare secondi era fallire. Basta cessioni di fretta, il talento viene prima dei conti"

Non è stato soltanto l’eroe di una notte, perché la sua titolarità in quella finale già spiega molto del suo valore. Ma Beniamino Vignola la storia della Juventus l’ha scritta lì, a Basilea, precisamente il 16 maggio 1984. Apre lui le danze contro il Porto, che risponde con Sousa, prima del 2-1 finale targato Zibi Boniek. In quella squadra stellare, però, c’era anche Vignola: mezzala molto tecnica, con poca confidenza con la porta, ma con un’ottima capacità di gestione del pallone. Il suo palmarès, poi, parla da solo: oltre alla Coppa delle Coppe, nella bacheca di Vignola ci sono uno scudetto, una Coppa dei Campioni e una Supercoppa Europea. In più, la magica esperienza alle Olimpiadi di Los Angeles nella rosa dell'Under 21, terminata però con un amarissimo quarto posto. Beniamino Vignola, sono passati 41 anni dalla finale di Coppa delle Coppe contro il Porto. Cosa le resta di quella serata dopo così tanto tempo? «Sono trascorsi ormai tantissimi anni, ma per me è sempre un ricordo indelebile: è stata una bella finale contro una grande squadra. Giocare da titolare in una Juventus stellare non era una cosa da tutti. Ero circondato da grandissimi campioni e quel gol mi ha permesso di scrivere una pagina di storia bianconera: mi ritengo un privilegiato a tutti gli effetti».

Come arrivò a quella partita? «Nel girone di ritorno di quella stagione partivo quasi sempre titolare: ero preparato a un grande evento ed ero fresco di scudetto. Mi ricordo la semifinale contro il Manchester United: quanta sofferenza per riuscire ad arrivare a Basilea. Gli altri miei compagni, però, erano abituati a queste partite: diciamo che erano già vaccinati per le finali. Io e Tacconi, invece, eravamo quelli nuovi. Avevo un po’ d’ansia, ma la spregiudicatezza mi ha aiutato. Anche per come ho sempre vissuto il calcio: per me è sempre stato un divertimento, una passione. La notte prima si dorme poco, psicologicamente non è facile gestire la pressione di una finale con la Juventus, ma poi dal riscaldamento il cerchio si stringe e non c'è spazio per i pensieri». Quella Coppa delle Coppe finì poi nel suo letto. «Già, io e Tacconi ce la siamo portata in stanza dopo la vittoria. Ha passato una notte felice con noi. Sono momenti persino difficili da descrivere, perché ti passa un’intera vita davanti. Il gusto della vittoria, però, resta per sempre».

Che cos’era quella Juventus? «C’era un profondo senso di rispetto tra di noi. Ho trovato tanti campioni del mondo e poi due fuoriclasse come Platini e Boniek. Quello spogliatoio poteva mettere in soggezione chiunque, ma i senatori ti accoglievano benissimo. Il bene del collettivo e la voglia di vincere veniva prima di tutto. Penso a Gaetano Scirea: una persona meravigliosa, un vero esempio, un uomo che prima di farsi rispettare sapeva rispettare profondamente gli altri». E poi c’era Michel Platini. «Provavo un sentimento di leggera invidia: tentavo di imitarlo in campo, ma faceva delle cose che non si potevano nemmeno pensare. Aveva il dono dei fuoriclasse, un talento sconfinato. Lui rendeva forti i compagni: ci riescono in pochi».

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