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“Juve-Argentinos Juniors, che viaggio per arrivare a Tokyo! Gli esercizi in aereo e i brividi finali"

Tokyo, 8 dicembre 1985. La Juve di Trapattoni è appena sbarcata in un mondo che gira a un ritmo diverso: neon che tagliano l’oscurità, strade gremite a ogni ora, attraversate dalla gente con una sincronia quasi disumana. La passione per il calcio non alberga ancora nei cuori del popolo giapponese. Eppure in città si avverte un fermento palpabile, una curiosità sfrenata nei confronti di un evento di simile portata. In mezzo a quel frastuono composto, c’è un inviato di Tuttosport che osserva, annota, respira ogni dettaglio: Darwin Pastorin. Testimone privilegiato di una partita destinata a rimanere nella storia: la finale di Coppa Intercontinentale, vinta dai bianconeri al National Stadium contro l’Argentinos Juniors.

I retroscena raccontati da Pastorin

Quarant’anni dopo, siamo tornati con lui in quelle ore lontane, tra retroscena, impressioni e piccole epifanie da dietro le quinte. «Ricordo il viaggio per arrivare in Giappone: fu interminabile, con una serie di scali in giro per il mondo - racconta Pastorin -. Talmente lungo che Trapattoni decise di far fare ai giocatori una serie di sedute di riattivazione muscolare. Quando siamo atterrati ad Anchorage, in Alaska, è arrivato un gruppo nutrito di tifosi a chiedere autografi e la squadra si è prestata, a cominciare da Platini. Alcuni di questi si fecero firmare delle fotografie di Paolo Rossi, nonostante si fosse trasferito al Milan pochi mesi prima. Un dettaglio innocuo che, comunque, ho inserito nel pezzo di colore della giornata. L’indomani, Platini esce nervosissimo dallo spogliatoio e inveisce contro di me: “Darwin ma come ti è venuto in mente? Perché hai scritto questa roba di Paolo?”. Da lì, fa retromarcia, rientra nello spogliatoio e sbatte la porta. Non ho mai capito il perché se la fosse presa, ma per i successivi otto anni non ci siamo mai più parlati. Abbiamo chiarito a Dakar nel ’92 per la Coppa d’Africa. Michel è un grandissimo. Sono contento che sia stato assolto, perché uno come lui meritava la presidenza della Fifa».

Fino alla fine

Ci si aspettava un confronto aperto, sudato, tra due scuole calcistiche profondamente diverse, unite dalla stessa inguaribile ambizione. La Juve, in particolare, aveva bisogno di un successo simile, da celebrare senza freni e con spontaneità. Specie dopo la tragica notte dell’Heysel. Ma ha dovuto sudare - e non poco - per regalarselo. Una gara passata a rincorrere, se non fosse stato per quel gol meraviglioso annullato inspiegabilmente a Platini, prima del più spietato e incerto degli epiloghi: i calci di rigore. Il palcoscenico dell’eroe indiscusso di Tokyo, Stefano Tacconi. «Abbiamo assistito a una partita estenuante - continua Pastorin - combattuta, vera: finire ai rigori in quel modo lì è stato intenso anche per noi inviati. Avevamo i brividi. Si avvertiva la tensione nell’aria. Per la Juventus, e in particolare modo per i senatori italiani, vincere la Coppa Intercontinentale a tre anni di distanza dal successo al Bernabeu contro la Germania avrebbe permesso loro si chiudere un cerchio. Ho bene impresso poi quella prodezza annullata a Platini. Salvatore Giglio, un genio, l’ha resa ancor più iconica con quello scatto meraviglioso. Dagli spalti eravamo tutti concentrati sull’arbitro e sulle proteste dei giocatori della Juve e ci siamo persi Michel, sdraiato a terra in quel modo. Poi i rigori, le parate di Tacconi e la festa interminabile del post partita. Quando siamo saliti con la squadra per il volo di ritorno non fiatava una mosca. I ragazzi del Trap erano sfiniti, sì, ma profondamente appagati. Raramente ho visto dei volti così felici e rilassati. Da Tacconi a Mauro, passando per Laudrup, Cabrini e Scirea. “L’angelo sceso dal cielo”, come lo definì Bearzot. Quando ripenso a lui e a Paolo Rossi mi commuovo sempre».

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