TORINO - È sbarcato a Torino con un soprannome singolare. Un po’ per via delle sue indiscutibili qualità da centravanti, freddo e spietato sotto porta; un po’ per via del suo carattere, schivo e riservato; un po’ per via del luogo in cui è cresciuto, Ottawa, in Canada, dove l’inverno non finisce mai e i respiri sono soliti congelarsi a mezz’aria. Jonathan David ha iniziato a portarsi dietro l’etichetta di “Iceman” proprio lì, in quelle mattinate a 20 gradi sotto lo zero, passate a rincorrere un pallone nel centro sportivo della Louis Riel Soccer School. Alla Juventus, però, quel gelo è finito per diventare un boomerang. Dai numeri, incompatibili con quelli registrati a in Ligue 1 con il Lilla, all’entità dell’ingaggio (6 milioni netti all’anno), che ha fatto di lui il secondo giocatore più pagato della rosa, passando poi per la nomea - sussurrata, ma neanche troppo - di colui che avrebbe dovuto accompagnare Dusan Vlahovic alla porta. Un mix di fattori che ha portato una parte dello spogliatoio bianconero ad alzare delle barriere invisibili. Diffidenza, circospezione, vecchie gerarchie che scricchiolano: tutto naturale, tutto umano.
Dalla lingua alla riservatezza: per David primi mesi difficili a Torino
Il fatto è che David, complice la sua timidezza e la barriera linguistica, inizialmente non sembra essersi sforzato granché per sviluppare una parvenza di alchimia con il gruppo di senatori in cui rientra - fra gli altri - proprio Vlahovic. Anzi: ha risposto al ghiaccio con altro ghiaccio. Così, mentre il campo continuava a restituire un rendimento ondivago e singhiozzante - complice anche la precedente gestione tecnica, che l’ha visto coinvolto a spizzichi e bocconi, nella maggior parte dei casi pure con compiti non affini alle sue caratteristiche - David si è rinchiuso in se stesso. In un guscio spesso, impermeabile persino alle cene informali con i compagni di squadra: qualche volta invitato, altre no... In queste prime settimane di Juve, Spalletti - che ha sempre fatto del cameratismo una delle arme più affilate dei tanti gruppi che si è trovato a gestire - ha preferito osservare, in silenzio, per captare eventuali malumori all’interno dello spogliatoio. E ha iniziato a lavorare proprio da lì, coinvolgendolo nei momenti di leggerezza dello spogliatoio, nel tentativo di aiutarlo a sciogliersi e a guadagnarsi la fiducia e le simpatie del gruppo. Una prerogativa essenziale, da cui dipende - inevitabilmente - il rendimento in campo di ogni singolo giocatore. Non c’è interprete al mondo che possa rendere al meglio prescindendo dalla considerazione umana e tecnica dei propri compagni. Soprattutto se di professione fai l’attaccante...
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